I nostri impegni per il Def
Consumi privati in ripresa dal 2014 e in crescita dell’1,3 per cento nel 2016; pressione fiscale scesa dal 43,6 nel 2013 al 42,3 per cento nel 2016; un numero di occupati che ha superato di 734 mila unità il punto di minimo toccato nel settembre 2013; una significativa revisione al rialzo della previsione di crescita del Pil per il 2017. Sono queste le premesse su cui il Governo ha formulato il ragionamento che sta alla base del Def, il Documento di economia e finanza 2017. Questa settimana, alla Camera, e contestualmente al Senato, abbiamo approvato la risoluzione di maggioranza con la quale abbiamo impegnato l’esecutivo su precise questioni e nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica.
Il nostro atto impegna, perciò il Governo a conseguire i saldi programmatici di finanza pubblica in termini di indebitamento netto rispetto al Pil; a continuare a promuovere una strategia di riforma degli orientamenti di politica economica e finanziaria; a sostenere con maggior forza l’introduzione di uno strumento comune di stabilizzazione macroeconomica; a dare piena attuazione ai contenuti del Programma nazionale di riforma; a disattivare l’incremento delle aliquote Iva e delle accise sugli olii minerali; a rafforzare gli investimenti pubblici, con priorità per quelli riguardanti la cura del territorio e il contrasto del dissesto idrogeologico e per quelli delle aree del Mezzogiorno; a migliorare il percorso di programmazione, progettazione, effettiva realizzazione e valutazione delle opere; a favorire forme di reale autonomia e responsabilità finanziaria degli enti locali; a incentivare il ruolo attivo degli enti territoriali nelle attività di recupero dell’evasione fiscale; a garantire l’effettivo esercizio delle funzioni fondamentali da parte delle province e delle città metropolitane; a sviluppare politiche per una maggiore crescita inclusiva volta a ridurre le disuguaglianze; a rafforzare le politiche attive del lavoro, rendendo effettivo l’assegno di ricollocazione; a dare seguito agli impegni assunti nell’accordo del pubblico impiego; a promuovere interventi volti a rafforzare la presenza femminile nel mondo del lavoro; a favorire l’incremento dell’occupazione giovanile; a garantire l’universalità e l’equità del servizio sanitario nazionale; a proseguire la politica di sostegno alle famiglie e di contrasto alla prolungata tendenza al calo demografico; in materia fiscale, a proseguire nell’azione di semplificazione del sistema tributario, nell’efficientamento del rapporto tra l’amministrazione finanziaria e i contribuenti, nell’ulteriore riduzione della pressione fiscale; a proseguire nell’azione di riforma della giustizia già avviata; ad aprire una nuova fase della spending review; a proseguire nell’azione di rafforzamento della capacità competitiva delle imprese italiane; a valutare il processo di avanzamento del programma di privatizzazioni; a proseguire nello sforzo di messa in sicurezza degli edifici e dei contesti urbani; a proseguire nel percorso di sviluppo sostenibile del Paese.
È l’ora della Brexit
In vista del consiglio europeo straordinario sulla Brexit che si è tenuto nei giorni scorsi, il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha fatto una comunicazione alla Camera sui contenuti dell’incontro. Dopo dieci mesi dal voto referendario nel Regno Unito, si avvia, infatti, formalmente il processo, previsto dall’articolo 50 dei Trattati di Lisbona, di separazione del Regno Unito dall’Unione europea.
In questi dieci mesi, dati economici e risultati politici hanno alimentato la speranza di poter conservare il progetto europeo, ma anche di poter lavorare per una Unione più forte, in grado di affrontare i problemi che ha di fronte e che sono all’origine della sua difficoltà. Non sarebbe, del resto, la prima volta nella storia dell’Unione europea che un momento di evidente, conclamata, crisi, si traduce in una capacità di reazione. Ma Gentiloni è stato chiaro: non siamo ancora a questo punto.
Tuttavia, l’incontro di Roma di un mese fa, per la celebrazione dei sessant’anni dell’Unione, ha avuto in quest’ottica un certo interesse per un paio di ragioni. La prima è stata il fatto che i 27 Stati membri dell’Ue hanno sottoscritto una dichiarazione comune impegnativa e non scontata per i prossimi dieci anni: per la prima volta, si introduce la possibilità di avere, nell’ambito della costruzione europea, una prospettiva di livelli differenziati di integrazione.
Cosa significa? Che dall’Austria all’Olanda e soprattutto dalla Francia, sono venuti dei messaggi chiari, non che negano l’esistenza di problemi, ma che registrano il fatto che le forze che ritengono che da questi problemi si debba uscire abbandonando l’Unione europea, sono delle minoranze. E questo è un segnale molto positivo e incoraggiante.
La maggioranza dei cittadini europei, cioè, tuttora si schiera per una società aperta e ritiene che, attraverso il dialogo, gli scambi commerciali, il confronto culturale e il dialogo interreligioso, ci sia la possibilità di costruire il progresso, il benessere, il futuro del nostro continente.
E nel documento approvato sabato ci sono proprio le linee guida per il negoziato con il Regno Unito, dentro il quale la Ue si muove con alcuni principi ispiratori: il primo è che noi siamo e restiamo amici e alleati del Regno Unito. Inoltre, siamo anche fermi sull’idea che si debbano distinguere due fasi: la prima nella quale si negoziano le modalità del recesso; la seconda nella quale si definisce il quadro nuovo dei rapporti tra Regno Unito e Ue.
Il Governo confida che si arrivi a un accordo positivo, nell’interesse del nostro sistema economico, delle nostre imprese, degli scambi che abbiamo con questo grande Paese. Come pure è interessato al fatto che tra le priorità di questo negoziato ci sia il destino dei cittadini dei diversi Paesi dell’Unione europea che attualmente risiedono nel Regno Unito: si tratta di 3.200.000 persone, il 15 per cento circa dei quali sono italiani. Abbiamo il dovere e il diritto di pretendere per questi nostri concittadini diritti e tutele amministrative certe, immediatamente applicabili, non discriminatorie e basate su un principio di reciprocità con i cittadini britannici, ha detto Gentiloni.
Negozio occupato, Aler non pervenuta
Il fatto di cronaca è noto a tutti coloro che vivono in zona: un negozio di piazza Gabriele Rosa, a Milano, di proprietà dell’Aler, a marzo è stato occupato, con due conseguenze: la persona che lo doveva prendere in affitto e gestire si è ritrovata in una situazione kafkiana – non è così semplice cacciar via gli usurpatori – e tutti gli abitanti della zona sono costretti a subire le intemperanze degli occupanti.
In tutto questo, Aler ci ha messo un mese prima di sporgere denuncia, rallentando così un auspicabile intervento delle forze dell’ordine.
Per questo, ho detto che è facile chiedere di riportare l’ordine pubblico, ma se chi è proprietario dell’immobile non denuncia che è stato occupato diventa complicato agire. Inoltre, Regione Lombardia, così attenta ai problemi di sicurezza, cosa pensa del proprio Ente e del comportamento che tiene?
Se Aler aspetta sempre così tanto prima di segnalare questi casi, è evidente che dopo è praticamente impossibile intervenire. È chiaro che Aler e Regione Lombardia non si rendono conto che si tratta di un patrimonio appartenente a tutti i cittadini e come tale va tutelato e preservato. Invece, sembra importi poco degli inquilini e degli abitanti di quei quartieri. Forse perché quel patrimonio non rientra nelle cosiddette eccellenze.
Paolo Cova