L’Italia si fermò, gli studenti uscirono dalle scuole, gli operai dalle fabbriche e tutti si trovarono, spontaneamente nella piazza della loro città.
Quel sequestro così clamoroso dell’uomo politico che disponeva di una «enorme autorità e pochissimo potere» (come disse Baget Bozzo), quanto bastava per essere riconosciuto da amici e avversari come l’architetto delle mappe del futuro del paese, prostrò in un attimo l’Italia intera in una sensazione di orfanezza smarrita e impaurita.
«Cosa succederà ora?», era l’interrogativo che trascinò tutti in piazza non tanto per manifestare contro chi ancora non capiva bene, quanto per ritrovarsi, per trovare forza dall’essere insieme, uniti e compatti.
L’assassinio poi dei cinque uomini della scorta di Aldo Moro, così tecnicamente perfetto, rivelò non solo la ferocia dei criminali ma anche la loro forza militare oltreché strategica.
«Questi non possono essere dei semplici improvvisati terroristi», ci si diceva.
La televisione ci offrì subito le immagini, in bianco e nero, di una tragedia colossale, perché colossale apparve subito l’intelligenza e la potenza di fuoco del nemico che si firmò poco dopo con la stella a cinque punte, non dissimulando peraltro il dubbio che la firma nascondesse una realtà ben più ampia e inquietante.
Non è facile ricostruire la psicosi collettiva e i sentimenti individuali di quelle primissime drammatiche ore.
I comunisti erano riuniti nelle loro federazioni provinciali, convocati direttamente dalla direzione nazionale del partito, per esprimere un parere sul voto da dare al governo Andreotti che proprio quel giovedì mattina si presentava alle camere per chiedere la fiducia. Personalmente ricordo con precisione che mi trovavo invece in una riunione della presidenza del comprensorio intercomunale a Reggio Emilia, quando una impiegata irruppe nella stanza per informarci della terribile notizia ascoltata alla radio.
Anch’io fui preso da grande sgomento, mi precipitai in piazza dove trovai mia moglie e tutti gli amici, ci abbracciammo piangendo senza parole. I terroristi un primo risultato lo avevano ottenuto: far precipitare il paese nella paura. Da Roma arrivò ben presto la notizia della fiducia rapidamente accordata al governo. Ma non bastò quella pure importante notizia a rassicurare di una piena «messa a controllo della situazione».
Così cominciò quel triste pellegrinaggio del popolo italiano nella invisibile prigionia che nascondeva Moro, durato 55 giorni, lunghissimi e drammatici, gli ultimi come i primi.
Le cronache, i comunicati, le piste e i depistaggi, le durissime lettere del prigioniero, i colloqui esili e incerti tra gli aguzzini e alcuni assistenti del professore oltre che diversi altri suoi amici fra cui un giovane sacerdote (oggi vescovo), l’afasia della maggior parte del ceto politico nazionale, non per viltà ma per obiettiva difficoltà a definire una strategia “di uscita”, la eco di alcune iniziative improvvisate, a volte anche estemporanee, di persone che sentivano comunque di “dover dare qualcosa” (le iniziative più serie, come l’offerta dei tre vescovi Bettazzi, Ablondi e Riva di offrirsi per scambiare il prigioniero si è conosciuta con precisione solo ora grazie al libro di Annachiara Valle, Parole opere e omissioni. La Chiesa negli anni di piombo (Rizzoli), o come quelle del coinvolgimento da parte della segreteria della Dc, della Croce Rossa internazionale, di Amnesty International, della Caritas International e dello stesso segretario generale dell’Onu per stabilire un contatto con i terroristi che non configurasse per loro il riconoscimento di uno status di combattenti legittimi, non vennero rese immediatamente note), tutto questo riempiva di ansia e attesa quelle lunghe interminabili giornate.
Mentre la memoria del sacrificio di quei cinque servitori dello Stato arretrò inevitabilmente dalla scena verso il retro delle quinte.
Eppure domani mattina è giusto che ci ricordiamo soprattutto di loro, perché domani è il trentesimo anniversario del loro assassinio, e del dolore in cui precipitarono le loro mogli e i loro figli privati del pilastro-maestro della famiglia.
Di Moro avremo possibilità di parlare ancora nei prossimi 55 giorni sino al 9 maggio. Di loro abbiamo invece il dovere di parlare ora. E per loro pregheremo insieme ai familiari e ai dirigenti della polizia di Stato e dell’arma dei carabinieri cui appartenevano, domattina nella Chiesa di San Lorenzo al Verano.
La mia città, Reggio Emilia, ha dato i natali ad alcuni dei terroristi attori di quel 16 marzo, e si dice abbia dato i natali anche all’organizzazione delle Brigate Rosse. Anche per questo mi sono sempre sentito intrigato dalla possibilità di capire le ragioni che indussero un pezzo di quella generazione di estremisti a varcare la soglia della clandestinità e della criminalità politica più feroce. E capire con quali sentimenti e patologie mentali, prima ancora che politiche, avessero vissuto quell’esperienza.
Nel libro (Un contadino nella metropoli, Bompiani), uno dei quattro carcerieri di Moro, Prospero Gallinari, descrive in questo modo l’assassinio del presidente della Dc: «Uno scoppiettio, come quello del motore di una macchina ingolfata».
E dell’azione del 16 marzo dice: «Due metri o dieci chilometri costituiscono una misura relativa. Siamo in azione. Non c’è più ritorno, non c’è più spazio per il dubbio e ti accorgi che le decine, centinaia di volte in cui hai pensato e discusso i movimenti e le varianti possibili della sequenza delle azioni, hanno creato in te una dimestichezza con l’ambiente, i gesti, con le ipotesi immaginate, che ti fanno muovere come un orologio. La situazione è come prevista, il movimento è quello studiato dozzine di mattine. L’unico assente è il fioraio abitualmente piazzato nella via, che sarà incavolato come una iena davanti alle quattro gomme squarciate del suo furgone. Non può immaginare che i teppisti autori del gratuito sfregio abbiano ritenuto più conveniente fargli spendere soldi per le gomme nuove che obbligarlo a trovarsi sulla linea di fuoco di quattro mitra che sparano a raffica. Ora è l’attesa, quella di un movimento, di un mazzo di fiori in fondo alla via che segnali l’arrivo di una macchina seguita da altre.
In quei momenti la testa è troppo impegnata, fissata sulla sequenza dei movimenti, perché possa essere attraversata da valutazioni, da pensieri di ogni genere. I fiori si muovono, ci mettiamo in posizione di scatto, la strada è libera, vediamo sullo sfondo le macchine e cominciamo a uscire. È un attimo, un tempo non valutabile e partono le raffiche. Quello che temevo accade: a metà della raffica il mitra si inceppa, estraggo istintivamente la pistola che porto alla cintura continuando a sparare come se non fosse cambiato nulla.
Quelle povere persone, il “nemico” che mi trovo di fronte, lo vedo ma in realtà non lo vedo, il movimento è automatico. Accertare che non possano reagire e passare alla seconda fase è tutt’uno: Moro sembra illeso, si tratta di accompagnarlo alla macchina e cominciare la ritirata».
È impressionante la freddezza, la precisione, l’intelligenza militare, lo squallore emotivo.
Io resto convinto che ci siano ancora cose da capire e cose da conoscere di quei maledetti 55 giorni. Ma, non di meno, c’è da indagare e da conoscere con maggiore rigore storico e politico l’“anamnesi politica” di quel gruppo di giovani terroristi (erano stimati essere quasi un migliaio).
E a tal proposito mi viene alla mente il discorso che Aldo Moro fece a Bologna solo due mesi prima all’inizio di quel terribile 1978, in cui avviò proprio lui un tentativo di analisi sociologica e politica di un fenomeno che era già esploso e che – ritengo – non immaginasse, quantunque non potesse escluderlo, che lo avrebbe poi riguardato così drammaticamente.
Quel discorso, insieme alle sue lettere dalla prigionia riordinate e commentate con cura e intelligenza proprio ora da Miguel Gotor (Lettere dalla prigionia, Einaudi 2008), potranno aiutarci in questo lavoro, che a distanza di trent’anni oggi ha senso ed è doveroso fare.